Altopiano di Asiago, quattro anni sempre sul fronte

L’Altopiano si Asiago a differenza del vicino Monte Grappa, sull’altra sponda della Valsugana e diviso dall’altopiano dal corso del Brenta, o a differenza del fronte del Piave, che si trovarono in prima linea soltanto in seguito alla rotta di Caporetto dell’ottobre-novembre 1917, fu linea di fronte e combattimento dal primo all’ultimo giorno della Grande Guerra.

L’altopiano fu l’unico importante teatro di operazioni sul fronte italiano dove si combatté ogni singolo giorno della Grande Guerra e, a differenza della montagna (come il Pasubio o l’Adamello ad esempio) praticamente deserta, la zona dei Sette Comuni era abitata da una popolazione di circa 40.000 civili, che soffrirono come pochi altri le alterne fortune dei quattro anni di lotte, che in quella zona non furono mai appannaggio totale di uno dei due schieramenti.

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La Grande Guerra sull’Altopiano di Asiago

Il primo colpo di cannone da parte italiana sull’altopiano venne sparato alle 4:00 del 24 maggio 1915 dal Forte Verena; quel colpo sancì l’inizio della battaglia per il controllo dell’Altopiano dei Sette Comuni (il primo colpo della guerra fu invece sparato alle 3.00 in direzione di Goriza, e segnò l’inizio dell’avanzata della 3^ Armata oltre i confini nazionali dell’epoca).

Dopo la rotta di Caporetto, che portò il fronte italiano a retrocedere da ovest del fiume Isonzo, dai territori attualmente sloveni come Kobarid (Caporetto) o il Monte Nero, il fronte fu ritirato, inizialmente tentando di bloccare l’avanzata austro-tedesca sul Tagliamento.
L’eroico sacrificio di alcune divisioni di fanteria e cavalleria non riuscì, però, ad arginare l’inesorabile avanzata nemica, ma diede tuttavia il tempo necessario ai resti del Regio Esercito, che stava ripiegando in maniera disordinata, di riorganizzarsi e di stabilire una solida e disperata linea di difesa sul Piave e sul Grappa, facendo perno sull’Altopiano di Asiago che continuò perciò a rimanere in prima linea.
La nuova linea Altopiano-Grappa-Piave era l’ultima linea possibile di difesa, uno sfondamento sull’Altopiano, o più realisticamente sul Grappa, avrebbe portato gli austriaci a dilagare nella pianura veneta e avrebbe preso alle spalle le forze in difesa del Piave, mentre uno sfondamento sul Piave avrebbe isolato le armate in montagna e sarebbe stato inarrestabile; era in gioco la salvezza e la sopravvivenza della nostra giovane nazione, era la sua prima grande sfida, ed era sull’orlo del baratro.
La ritirata di Caporetto ebbe tuttavia più di un vantaggio (in termini prettamente militari); prima di tutto, per la prima volta dall’inizio delle ostilità, gli italiani si ritrovarono in una posizione forte rispetto agli austriaci: ora eravamo noi a difenderci protetti da efficaci trinceramenti, in posizioni predominanti e scelte da noi, non più costretti ad attacchi frontali in stile risorgimentale che si concludevano immancabilmente con una carneficina dei nostri uomini, tranciati dal fuoco incrociato di mitragliatrici e cannoni avversari.
In secondo luogo, le linee di rifornimento si accorciarono sensibilmente e, grazie anche alle nuove politiche di gestione dell’esercito volute dal nuovo Capo di Stato Maggiore Generale Armando Diaz, questo comportò decisivi miglioramenti nella vita dei nostri soldati: licenze più lunghe e più frequenti, migliori razioni di cibo (comunque sempre buone anche in precedenza), e in generale più attenzione nei confronti degli uomini, in quanto uno dei principali motivi di Caporetto fu proprio il morale e lo spirito ormai fiaccato di parte dei nostri soldati.
La gestione dell’esercito da parte del Generale Luigi Cadorna, è attualmente ancora discussa ma , ciò che è certo è che fu particolarmente dura e autoritaria.

 

    ➔Approfondimento storico

Altopiano di Asiago, i luoghi della Grande Guerra

Per via dei quattro anni ininterrotti di combattimenti, i luoghi ricchi di storia e memorie qui sull’Altopiano di Asiago sono molti, e il nostro tour #WarFieldTripsWWI sugli itinerari della Grande Guerra non poteva esimersi dal dedicargli un weekend.
Grazie alla bellezza del paesaggio e alla conformazione del territorio, l’Altopiano di Asiago è una meta molto frequentata, vi invito perciò ad unire alla vacanza classica anche una visita storica sui luoghi della Grande Guerra, magari partecipando ad un’escursione guidata insieme alle Guide Altopiano.

Escursione al Monte Ortigara

Un semplice dato, ma molto indicativo per comprendere l’intensità raggiunta dai combattimenti e dai bombardamenti su questo monte, è senz’altro quello che riguarda la sua altezza; la cima del Monte Ortigara oggi raggiunge i 2.105 metri ma prima del giugno 1917 era più alta di ben 8 metri.
La battaglia fu combattuta dal 10 al 29 giugno 1917, principalmente da battaglioni di Alpini.
Lo scontro fu talmente sanguinoso che il monte è anche chiamato “Il Calvario degli Alpini“.
Lo schieramento italiano era di circa 300.000 uomini, mentre quello austro-ungarico, arroccato in ottime postazioni difensive era composto da 100.000 uomini, ma, nonostante l’inferiorità numerica, l’artiglieria austriaca era ben organizzata ed occupava una posizione centrale sul fronte che le consentiva di dirigere il fuoco in ogni punto ed avere quindi un enorme raggio d’azione.
L’attacco italiano, che si incagliò sul monte Ortigara, aveva lo scopo di riconquistare le vaste porzioni di territorio perse sull’altopiano durante la battaglia di primavera (Strafexpedition) del maggio 1916, ma si risolse purtroppo in un fallimento tattico e strategico italiano.
La zona dello scontro ha un’estensione di circa 14 chilometri e un dislivello che va dai 1.000 ai 2.100 metri, il tipo di terreno è carsico e quindi spoglio di vegetazione e privo di ripari e risorse (soprattutto idriche); lo sforzo dei comandi italiani per rendere logisticamente possibile questo assalto fu enorme, ma non seppero sfruttare al meglio le situazioni e gestire gli imprevisti.
L’assalto non partì certo nel migliore dei modi; il giorno precedente l’attacco, 22 ufficiali italiani appartenenti ai due battaglioni del 145^ reggimento fanteria, incaricati di irrompere nel cratere che sarebbe stato aperto da una nostra mina predisposta a Monte Zebio, andarono a fare un’ultima perlustrazione del terreno di battaglia ma, giunti in prossimità della zona da cui sarebbe partito lo sfondamento, l’enorme mina scoppiò improvvisamente creando uno squarcio dal diametro di 35 metri nella montagna: 20 dei 22 ufficiali morirono, insieme ad altri 180 soldati italiani.
La situazione non andò poi migliorando, i bombardamenti preparatori non riuscirono a sfondare le linee nemiche e la maggior parte dei reticolati restò intatta, come se non bastasse le condizioni metereologiche erano pessime e si alzò una fitta nebbia, ormai però era tutto pronto e gli austriaci si erano messi in allarme, non si poteva più rimandare e l’attacco partì comunque.
L’avanzata italiana, che iniziò il 10 giugno, fu subito respinta da tutti i lati, nei giorni seguenti si susseguirono una serie di attacchi italiani e contrattacchi da parte degli austriaci, che videro sempre le difese avere la meglio sugli assalitori.
Dopo quasi venti giorni di battaglia la 6^ armata fu costretta a ripiegare sulle posizioni di partenza, sancendo il completo fallimento dell’offensiva; l’esito della battaglia fu pesante per noi con più di 25.000 tra morti feriti e dispersi, mentre furono quasi 9.000 per gli austriaci.

Il percorso verso la cima dell’Ortigara parte da Piazzale Lozze fino alla piccola Chiesetta  del Lozze, costruita dagli Alpini proprio dopo la battaglia del Giugno 1917, che oggi conserva un piccolo ossario.
Da qui, si svolta a destra, seguendo la trincea italiana, fino al punto di osservazione del Monte Lozze, che guarda verso la “terra di nessuno” e le linee austriache poste di fronte, sull’Ortigara.
Il percorso prosegue sempre seguendo le nostre linee, fino a Cima Caldiera, una zona riparata dal fuoco nemico, dove un tempo arrivava la camionabile e venivano conservate le bombarde, le munizioni ed il cibo per i soldati in prima linea.
Scendendo poi nel Passo dell’Agnella si affronta il tratto di camminata più impegnativo, quello che risale una galleria per portare poi a Cima Ortigara, al Cippo Austriaco prima e al Cippo Italiano “Per non dimenticare” poi.
E’ proprio da questo lato riparato, ma impervio che i soldati italiani attaccarono la cima.
Il sentiero poi scende, verso il piccolo ricovero in legno e seguendo il sentiero tricolore si torna alla Chiesetta del Lozze e quindi al Piazzale Lozze.
L’escursione è abbastanza impegnativa, richiede almeno 4 ore e per comprendere pienamente i fatti che qui si sono svolti, è consigliabile percorrerla insieme ad una guida, come abbiamo fatto noi.

Il Monte Cengio o Salto del Granatiere

Il Monte Cengio, situato all’estremità sud-ovest dell’Altopiano sullo sbocco della Val d’Astico, è una montagna alta 1.354 metri sul livello del mare, conosciuta anche come “il salto del Granatiere”.
Questo monte fu teatro di fondamentali battaglie durante la Grande Guerra, ma la sua importanza massima la ebbe durante la famosa Strafexpedition austriaca del maggio-giugno 1916.
Il reparto maggiormente impegnato su questo monte, al quale è legato per sempre il nome che è passato alla storia per gli incredibili atti di eroismo, fu il Granatieri di sardegna della Brigata Sassari, i famosi Dimonios“, che qui persero complessivamente, assieme ai fanti delle brigate Catanzaro, Novara, Trapani e Modena, tra morti, feriti e dispersi, 10.264 uomini, soltanto tra il 29 maggio e il 3 giugno 1916.
In queste date la montagna divenne, infatti, uno degli ultimi strenui baluardi difensivi a contrapporsi alla violenta avanzata austriaca; in caso di caduta del Cengio, gli imperiali sarebbero potuti dilagare senza ulteriori grandi resistenze nel cuore della pianura veneta, a quel punto la sconfitta sarebbe stata inevitabile.
Il 23 maggio arrivò dal Friuli la Brigata Sassari che, con i suoi 6.000 uomini, si schierò a difesa della zona, dal forte di Punta Corbin (circa 5 chilometri più a nord del Monte Cengio) fino al paese di Cesuna.
Il 30 maggio gli austriaci si impossessarono del Forte Corbin, ed iniziarono l’opera di isolamento delle forze italiane sul Monte Cengio.
Il 2 giugno, dopo numerosi violenti attacchi, sempre respinti dalla nostra fanteria, Cadorna ordinò alla Brigata Trapani di stanziarsi sul vicino monte Paù, alle spalle del monte Cengio, in previsione di una prossima capitolazione dei combattenti del Cengio, ormai stremati, isolati, accerchiati e senza rifornimenti.
Il 3 giugno l’assalto nemico, preceduto da un violentissimo bombardamento, è vincente, ed è ben descritto da questa frase di un testimone oculare:

“Bang! Bang! Click. Gli italiani sul Monte Cengio hanno finito le munizioni; gli austriaci controllano l’unica mulattiera praticabile; scordatevi i rifornimenti. Un soldato non ha molte opzioni: può arrendersi, o può afferrare il fucile per la canna, brandendolo come una mazza. Quella non è più una battaglia, è una mischia inaudita, una rissa da bar. Il 3 giugno l’assalto austriaco sul Monte Cengio è spinto a fondo. L’ultimo baluardo italiano è uno sperone di roccia, un balconcino sospeso nel vuoto. Al diavolo tutto, è il caos a regnare sul furibondo, crudo, corpo a corpo. L’ultimo atto dei Granatieri di Sardegna è destinato a entrare nell’epica della Grande Guerra: disperati, avvinghiati al nemico, in molti si buttano giù. L’episodio cambierà il nome di quel burrone: oggi è conosciuto come “il salto del Granatiere”. A fine giornata il presidio cade in mani austriache. Dei circa 6.000 granatieri inviati a difendere il Cengio ne tornano a valle solo 1.300, gli altri affollano le liste dei morti, dei feriti e dei dispersi.”


I Granatieri, accerchiati e senza più munizioni, scelsero di non arrendersi, consapevoli della fondamentale importanza della difesa dell’Altopiano per gli esiti della guerra, e si gettarono nel vuoto, portando con sé più nemici possibile, in un atto di sacrificio che ha dell’incredibile, soprattutto se si va sul posto e si vede quello strapiombo che dà le vertigini solo a transitarvi sopra con tanto di ringhiera.
Il Monte Cengio è conquistato, ma qualche Granatiere riesce a bucare l’accerchiamento e a ripiegare sul Monte Paù, dove è già presente la Brigata Trapani e sta arrivando la Brigata Modena.

La strenua resistenza dei giorni seguenti, sia sul Pasubio che sull’Altopiano, spingerà gli austriaci al ripiegamento oltre la Val D’Assa, la Strafexpedition, che fino ad allora fu il momento peggiore della nostra guerra, era stata superata.

Successivamente a questi episodi il Cengio venne ulteriormente fortificato, con gallerie e mulattiere ancora ben visibili e visitabili, per evitare il ripetersi di una situazione d’assedio simile.

Ora si può arrivare in auto fino al Piazzale Principe del Piemonte, dove si trova anche un ristorante, e da qui si può iniziare il percorso circolare del Monte Cengio.
Il percorso può essere seguito in entrambe le direzioni, personalmente vi consiglio di iniziare salendo alla Chiesetta dedicata ai Granatieri di Sardegna, con la statua composta da schegge di granata, e proseguire poi verso Piazzale Pennella.
Da qui, se avete tempo a disposizione, potete seguire i cartelli indicativi e visitare i resti di trincee e postazioni, oppure salire direttamente alla Cima
Una volta esplorati i dintorni, ritornate al Piazzale Pennella, dove un tempo venivano dirette le operazioni e dal quale si gode di una bella vista sull’Altopiano, e imboccate la Galleria di Comando per percorrere la mulattiera di arroccamento, tra passaggi scavati nella roccia e lo strapiompo sulla Val d’Astico, per arrivare quindi al Salto del Granatiere e ritornare poi al punto iniziale.
Il percorso è leggero e piacevole, occorre prestare però attenzione all’umidità che può rendere scivolose le grotte. Il giro breve richiede meno di un’oretta, naturalmente se decidete di visitare anche trincee ed appostamenti il tempo si allungherà.

Il Col Basson

Agosto 1915, dopo le prime due battaglie dell’Isonzo, l’Esercito Italiano concentra gli sforzi sul fronte trentino.
L’Altopiano di Asiago era una lunga trincea, dominata dalla possente figura dei forti austriaci e degli opposti forti italiani.
Inizialmente, i comandi del Regio Esercito, speravano di poter distruggere i forti nemici con il solo uso dell’artiglieria, ma una volta appurata la miglior fattura delle opere difensive austriache rispetto alle nostre, si decise di scatenare contro i forti ondate su ondate di fanteria.
L’Altopiano divenne così il teatro di uno dei più eclatanti massacri del conflitto, se non il più sanguinoso, e probabilmente uno dei più drammatici; l’assalto alle fortificazioni del Col Basson.
Con la sua modesta altezza, meno di 1.500 metri (l’altopiano ha già un’altezza di 1000/1100 metri), il Col Basson è difficile da notare, è poco più di un oblungo colle erboso a sud della val d’Assa.
L’assalto al Basson era poco più che un’azione diversiva nei più grandi progetti, che vedevano impegnata la 34^esima divisione di fanteria del Generale Oro, che avevano l’obbiettivo di oltrepassare la linea dei forti e aprirsi la strada verso Trento, il Basson non era quindi un obbiettivo tattico di grande importanza.
Dopo 10 giorni di bombardamenti incessanti, la notte del 24 agosto 1915, il Generale Oro decise di inviare il 115^esimo reggimento fanteria della brigata Treviso all’assalto del Basson.
IL Colonnello Riveri, che comanderà l’assalto, obbiettò (a ragione) con il Generale Oro, asserendo che, nonostante gli enormi bombardamenti rivolti al colle, i reticolati erano ancora tutti intatti e pertanto l’attacco sarebbe stato fallimentare, considerando poi che il colle non offre pressoché nessun tipo di riparo naturale e che quella notte ci fosse Luna piena e quindi buona visibilità.
La Risposta del Generale è una di quelle che danzano tra realtà e leggenda, parrebbe infatti che Oro disse a Riveri in merito all’osservazione sui reticolati ancora intatti “I reticolati si aprono con i denti o con i petti“.
Riveri, consapevole del sicuro fallimento dell’assalto, pretese di guidare i suoi uomini in prima persona, mise la sua divisa migliore, completa di guanti bianchi e gambali lucidi, volle che la fanfara reggimentale accompagnasse la carica suonando l’inno di Mameli e che la bandiera del reggimento venisse spiegata davanti ai battaglioni in avanzata e, sciabola sguainata, si mise alla testa delle sue truppe, affiancato da tutto il suo stato maggiore e dal trombettiere e condusse i suoi uomini, prima a passo di marcia e poi di corsa, contro tre ordini di reticolati.
L’attacco fu un massacro, nonostante tutte le condizioni sfavorevoli gli italiani riuscirono ad oltrepassare i tre ordini di reticolati protetti da mitragliatrici e dal fuoco incrociato, proveniente dai forti Verle e Luserna, che falciarono gli uomini incastrati nelle reti difensive ed a raggiungere la prima linea, lì giunti, stremati e decimati, subirono un pesante contrattacco austriaco, impossibilitati a tornare indietro per via del fuoco incrociato, esausti e in maggior parte feriti, i superstiti furono catturati, tra loro anche il Colonnello Riveri rimasto a terra ferito, e il comandante del primo battaglione, morto nel tentativo di salvare la bandiera.
Considerando le premesse, non ci si riesce davvero a spiegare come siano riusciti ad avanzare così tanto, i racconti dei pochi superstiti parlano di una sorta di frenesia collettiva che colpì quasi tutti i combattenti durante l’attacco, specialmente gli ufficiali, a cui vennero attribuiti gesti di coraggio ai confini dell’incoscienza.
La battaglia si concluse con una vittoria difensiva austroungarica che costò agli italiani, in una sola notte, 1.048 soldati e 43 ufficiali caduti; dopo questa battaglia non vennero più effettuati tentativi di scardinare la linea dei forti austroungarici.
Il Col Basson oggi è visibile dalla strada che porta verso Trento, un campo adibito a pascolo e abitato da marmotte. Quella tragica notte viene ricordata solamente da un cippo commemorativo a bordo strada.

I Forti 

Purtroppo nel nostro weekend ad Asiago sulle tracce della Grande Guerra, non siamo riusciti a fare tappa ai forti ma, per chi ne avesse l’occasione, è sicuramente un’esperienza che aiuta molto a comprendere di più la Grande Guerra.
Dagli ultimi anni del 1800 e per tutti gli anni del 1900 fino alla Prima Guerra mondiale, austriaci e italiani, in teoria alleati, investirono un enorme capitale nella fortificazione del confine comune ed in particolare nella costruzione dei forti, ad ulteriore dimostrazione che l’alleanza tra i due Regni era puramente formale.
Questi forti, soprattutto da parte italiana, vennero costruiti in fretta e basandosi su una concezione architettonico-militare assolutamente superata; si può dire che allo scoppio della guerra fossero già obsoleti, paragonati alla nuova potenza di bombarde, obici e cannoni.
Il Forte Verena in particolare, considerato una nostra punta di diamante, al primo colpo che lo centrò andò quasi completamente distrutto, provocando la morte di 40 soldati italiani.
Oggi, nonostante l’azione della guerra prima e di coloro che andavano a caccia di ferro e rame poi, i forti non hanno più l’aspetto di prima, eppure, la loro aurea di fortezze invincibili, appollaiate sull’orlo delle montagne, rimane ancora agli occhi di chi li va a visitare, aurea che 100 anni fa fu spazzata via da pochi colpi di cannone.
Molti di questi maestosi forti si trovano nella zona dell’Altopiano e sono ancora visitabili, come il Forte Corbin o il Forte Interrotto tra quelli italiani e il Forte Belvedere o il Forte Luserna tra quelli austriaci.

Per concludere l’itinerario della Grande Guerra sull’Altopiano di Asiago, vi invito a visitare il maestoso Sacrario Militare di Asiago, situato proprio a due passi dal centro del paese, aperto da martedì a domenica dalle 09.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 17.00

 

Approfondimento Storico – Cadorna e Diaz: due generali a confronto

Cadorna, Generale sessantacinquenne, era un uomo molto duro e severo, la sua gestione fu irreprensibile e contemplava  (non poi tanto diversamente dai colleghi suoi contemporanei) qualunque mezzo per mantenere l’ordine e la disciplina, anche le famigerate decimazioni; la pratica consisteva nel prendere a sorte, in seguito ad eventi di insubordinazione o di codardia collettiva di fronte al nemico da parte di qualche reparto, un uomo ogni 10 e fucilarlo; pratica ripresa da una simile utilizzata dall’esercito dell’Impero Romano.
Questa gestione estremamente severa, unità alla concezione militare ottocentesca, imperante nei comandi di tutti gli eserciti nei primi anni della guerra, che prevedeva attacchi di massa in stile risorgimentale, non avendo ancora ben compreso le potenzialità delle nuove armi a ripetizione e la superiorità delle difese rispetto agli assalti frontali, crearono dei veri e propri bagni di sangue e in molti eserciti la sensazione che ai comandi non interessasse la sorte dei propri uomini prese pesantemente piede, abbassando sensibilmente il morale delle truppe e lasciando strada alle correnti disfattiste e filo sovietiche che volevano la pace a tutti i costi (la grande rivoluzione russa che portò alla caduta dello Zar e al dominio dei Comunisti bolscevichi, oltre che all’uscita dalla Grande Guerra dei russi, avvenne proprio nel periodo di Caporetto), convinti che una resa incondizionata avrebbe portato la pace, mentre chi la pensava in modo opposto credeva che solo una vittoria definitiva avrebbe portato la vera pace, e quindi era necessario continuare a combattere.
Con l’arrivo di Diaz, quindi, ci si concentrò sul miglioramento delle condizioni del soldato.
Venne creato il Servizio P, ovvero il servizio di propaganda, che si preoccupava di combattere il disfattismo e di assistere i soldati nei loro bisogni, vennero creati i giornali di trincea, solitamente umoristici e scritti ed illustrati dagli stessi soldati allo scopo di rilassare l’ambiente e creare complicità, vennero allungate e rese più frequenti le licenze ecc.
La gestione strategica di Cadorna si caratterizzava per rigidità ed inflessibilità, attacchi frontali come unico modo di sfondamento e difesa delle posizioni ad ogni costo; nelle sue intenzioni iniziali, in realtà, avrebbe voluto sfondare nella zona di Trieste e Gorizia per poi manovrare fino a Vienna, nel cuore dell’impero, ma la natura prettamente montuosa del nostro fronte non consentiva manovre e, in alcuni luoghi, nemmeno l’utilizzo di grandi unità, senza considerare poi le difficoltà di sussistenza in ambienti inospitali e le difficoltà logistiche nel trasporto delle artiglierie.
Diaz, invece, grazie anche alla nuova conformazione del fronte dopo Caporetto (150 km più breve), si caratterizzò per una difesa più elastica e per tecniche offensive più moderne, con ampio utilizzo dei neonati Reparti D’Assalto, noti come Arditi, che furono i primi veri reparti d’assalto della storia, da cui anche i Marines statunitensi, che nasceranno il decennio successivo, prenderanno esempio ed ispirazione.
Altro grande evento del dopo ritirata fu la scesa in massa, sul campo di battaglia, dei famigerati Ragazzi del 99; si trattava dell’ultima generazione chiamata alle armi, quella del 1899, composta da 17/18enni che mostrarono un’ardore ed una grinta inaspettati e si mostrarono decisivi per gli esiti della nostra guerra (molti dei volontari che facevano domanda per entrare negli Arditi erano Ragazzi del 99).
Infine, con la disfatta a Caporetto, fu chiaro a tutti, soldati e non, il fatto che ci si trovasse sull’orlo del precipizio. Gli abusi subiti dagli abitanti del Veneto occupato erano un monito per tutto il resto del Paese: bisognava lottare e ricacciare quello che agli occhi di tutti ora era davvero l’invasore, mentre prima (tranne per quanto riguarda le terre irredente), molti italiani non si curavano molto delle sorti delle terre ancora in mano austriaca (prima della guerra), le vedevano come terre lontane, l’Italia non era ancora una nazione vera e propria, molti non sapevano nemmeno l’italiano e non capivano nemmeno cosa dicesse gente di altre regioni; si può dire che una delle cose che questa guerra ha costruito e non distrutto, è certamente un’Italia più unità: erano finalmente stati fatti gli italiani.
Diaz si trovò quindi, sia per suo merito che per via delle nuove circostanze, alla guida di un esercito più ridotto di prima (con Caporetto ci furono molti prigionieri, tacciati poi di tradimento per essersi arresi senza combattere; vedasi il discorso soprastante sul morale) ma estremamente più determinato e strutturato; iniziava così l’ultimo anno di guerra segnato dall’arresto dell’avanzata austriaca, dalla resistenza sulle posizioni ed infine dallo sfondamento travolgente della Battaglia di Vittorio Veneto, la Caporetto austriaca, dalla quale, però, l’Impero non riusci più a riprendersi.
Ed è in particolare qui, sull’Altopiano di Asiago, fronte ininterrotto di guerra, che notiamo le maggiori differenze dovuto alla guida di Cadorna e Diaz, nello spirito delle diverse battaglie che si svolsero sull’Altopiano.

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